Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende…
L’amata, odiata e maledetta Firenze degli anni a cavallo tra il ‘200 e il ‘300 viene presentata da uno dei suoi più illustri cittadini: Durante Alighieri, per tutti gli amici Dante. L’autore della celeberrima Divina Commedia ha un rapporto con la sua patria di amore e di odio? Nell’opera la cosiddetta “Fiorenza mia” è continuamente deprecata per quelle tre faville, la superbia, l’invidia, l’avarizia che hanno spinto i Fiorentini ad una corsa sfrenata verso il potere. Ma allora possiamo definire il poeta un amante della sua Firenze? Molte voci si levano nelle Cantiche schierandosi con opposte posizioni verso la città partita. Nel canto X dell’Inferno il ghibellino Farinata quasi rimpiangerà di averla salvata dalla minaccia della distruzione dopo la vittoria di Montaperti. E invece nel sublime Paradiso, attraverso la voce dell’autorevole Cacciaguida, Firenze si mostra in tutta la sua bellezza di città giusta e virtuosa. Più volte nella terza cantica il sommo poeta definisce ovile la propria patria. È come se egli stesso, lontano dalla sua città, provasse a riviverla in dimensione di sogno nella Verona di Cangrande, attraverso la rappresentazione quasi idilliaca che traspare dalle parole del trisavolo; ma al contempo egli sembra volersi rendere inconsapevole della reale condizione in cui versa la sua Firenze. Egli non vi tornerà mai, ma certo egli l’amò con tutto se stesso; l’amò a tal punto da non tornare, osservandola da lontano e auspicando di lasciare spazio a chi aveva la forza di lottare, sperando nel fatto che non ci fossero solo due giusti.