Il caso Mahjabin Hakimi
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Una notizia terribile arriva dall’Afghanistan: la giovane pallavolista Mahjabin Hakimi è stata decapitata. La sua colpa? Praticare lo sport che amava: il volley.
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Mahjabin, come tantissime altre ragazze in Italia e nel mondo, coltivava la sua passione per la pallavolo nel Kabul Municipality Volleyball Club, ma rispetto alle altre compagne, non era riuscita nei mesi scorsi a lasciare l’Afghanistan. Sembra impossibile che nel 2021 qualcuno venga ucciso perché giochi a pallavolo o, ancora peggio, perché voglia inseguire i propri sogni.
Invece, è un’orrenda realtà.
Formalmente, in Afghanistan il divieto di praticare sport in pubblico non esiste, ma il vicepresidente della “Commissione Culturale”, Ahmadullah Wasiq, nei giorni scorsi ha spiegato che “non è necessario” per le donne fare attività sportiva, in particolare in pubblico. I militanti contattano le famiglie, ordinando di proibire alle figlie di fare sport, se non vogliono pagare “conseguenze molto serie e inaspettate”. E poi, cercano quelle che in passato hanno intrapreso questa strada, esponendosi.
Un salto indietro di mezzo secolo, perché già negli anni settanta c’erano a Kabul squadre di pallavolo, e poi di calcio, cricket e altri sport.
“Non vogliamo che altre facciano la stessa fine”, dichiara alla Bbc Zahra Fayazi, per sette anni titolare nella nazionale afghana e in contatto con le atlete intrappolate nel paese: ”Hanno cambiato casa, si sono trasferite in altre province per sfuggire alla caccia dei talebani. Molte hanno bruciato le loro tute, l’abbigliamento sportivo per salvare sé stesse e le proprie famiglie. Sono spaventate a morte e cercano di cancellare tutto quello che ricorda lo sport”.
Quella di Mahjabin Hakimi è una triste pagina della nostra storia. Lo sport, qualunque esso sia e a qualunque livello esso si pratichi, non dovrebbe mai essere una colpa.