Il cuore della felicità – I parte
Era un normalissimo pomeriggio d’autunno. Il sole dardeggiava dalle finestre formando strani disegni sulle pareti sulle quali batteva; come una lama affilatissima fendeva i rami degli alberi, che con le loro foglie scarlatte e dorate formavano un susseguirsi di ombre di forme insolite e curiose.
Osservavo la quercia di fronte alla finestra del salone. Era imponente, con i suoi tre e passa metri d’altezza, il suo tronco secolare e quei suoi rami che si intrecciavano come braccia desiderose di arrivare al cielo, come se avessero voglia di salire in un mondo sconfinato dove tutto è migliore.
Facevo le mie considerazioni sul maestoso albero quando il silenzio quasi tombale del salone fu interrotto da un grido: “Emy , Emy, dove sei ?” –
Era mia cugina Charlotte che mi chiamava per giocare. “Sono dietro al divano, Charly. Cosa c’è ?”
“Giochiamo a nascondino ?”
“Non ne ho voglia” – aveva interrotto la mia contemplazione pre-lettura.
“Ti prego, ti prego, ti prego ” e cominciò a fissarmi con gli occhi dolci. Non potevo
resistere.
“Va bene, ma solo una partita … Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato mi aspettano” – dissi, riferendomi al libro di Roald Dahl che avevo preso in prestito in biblioteca. Charlotte annuì compiaciuta.
Iniziai a contare, ovviamente dovevo farlo io. “Otto…nove…dieci…sto arrivando”
-“Non mi troverai mai.”
Aveva quasi ragione, infatti impiegai più tempo del previsto per scovare il suo nascondiglio, ma fui aiutata dal suono delle sue grida. Si era nascosta in un vecchio armadio appartenente alla nostra bisnonna Tilde, intarsiato e decorato con cura, molto costoso a suo tempo, ma ormai rovinato e dimenticato da tutti .
Era conservato in una stanza che per noi era proibita, dove giacevano tutti i cimeli di famiglia. La stanza era infatti piena di pellicce della mamma delle quali era esageratamente gelosa, insieme alle casette di ceramica della collezione di papà, gran parte delle quali erano esposte con vanto sul nostro camino. Nella stanza c’erano anche tutti i libri di Rosie, quelli che non leggeva più perché considerava “da bambini”, come se andare all’università l’avesse improvvisamente resa una donna. Tutti i membri della mia famiglia conservavano in quella stanza i loro oggetti preziosi e per me e Charlotte era un’utopia poterci entrare.
Rimasi senza parole: di fronte a noi si estendeva una valle immensa, piena di fiori, alberi,
cespugli e animaletti pelosi che saltavano da un lato all’altro. Io e mia sorella ci guardammo e senza bisogno di dire nulla decidemmo di dover esplorare quel luogo. Così ci addentrammo nella valle: guardando di fronte a noi si intravedeva, oltre i dolci colli e pendii erbosi, il mare.
L’azzurro del cielo si fondeva con il blu limpido dell’acqua come in una sfumatura infinita di celeste che continuava dopo le colline che sembravano dune di un deserto di acquerelli, colorato di fiori e bacche .
Alle nostre spalle era sparito l’armadio e al suo posto si ergevano trionfanti montagne con cime imbiancate e fianchi alberati. Da una delle montagne nasceva un fiumiciattolo che scendeva fino a valle e si adagiava nel suo letto sabbioso passando a pochi metri da noi. Decidemmo di avvicinarci al fiume, l’acqua era tanto limpida da permetterci di vedere i sassolini sul fondo e i pesci, rossi come il fuoco, che nuotavano seguendo il corso dell’acqua. In lontananza scorgemmo una vela e io, grazie al mio occhio di lince, riuscii a scorgere anche la buffa figura che governava l’imbarcazione. Costui ci si avvicinò e si presentò cordialmente: -“Io sono Mao, l’elfo di corte, sono venuto qui per portarvi al castello” – annunciò a gran voce. Io e Charlotte lo osservammo per qualche secondo. Aveva due occhietti vispi e di color dell’ambra, un nasino aquilino e delle orecchie a punta. Convenimmo entrambe che era proprio un elfo. Era vestito di verde, con un elegante gilet allacciato in vita con dei bottoncini dorati. Siccome non salimmo sulla sua barchetta ci guardò e disse: -“Allora? Volete sbrigarvi! Il re vi aspetta da molto.”
Io e la mia cuginetta non capimmo, ma decidemmo di dargli ascolto e salimmo. Arrivammo fino ad un piccolo specchio d’acqua che era probabilmente utilizzato come parcheggio per le barche. Vi erano infatti piccole zattere di legno decorate con i più svariati colori e su ognuna vi era uno stemma: un fiore di pesco con una spada con la lama di diamante.
Chiesi a Moo il perché e mi rispose che era lo stemma reale della casata del re in carica.
Scendemmo e fummo accolte da una strombettata e le porte dell’imponente castello si aprirono. Il palazzo reale era molto alto , c’erano sei torri, tre da un lato e tre dall’altro, avevano tutte la bandierina con lo stemma del re ed erano molto alte, come le torri delle chiese gotiche che avevo studiato a scuola. Le guglie erano di mattoncini blu notte, mentre il resto del palazzo era di pietra bianca. Il portale era di legno chiaro, che si
intonava perfettamente con tutto il resto.